Riflessione del Vescovo Roberto in questa nuova fase dell’emergenza sanitaria: Riaprire il cuore e la mente.
Da qualche giorno ci troviamo nella fase 2. Attraverso il dialogo e la necessaria dialettica, si sono chiariti i malintesi tra la ricerca del bene comune – la salute per tutti – e il rispetto del diritto a manifestare e celebrare la propria fede. Le chiese in questo tempo di coronavirus non sono rimaste chiuse. Spesso mi è capitato di entrare nelle cattedrali di Oristano e Ales, vuote di gente, ma con la piccola fiammella che insisteva a dire la presenza del Signore nell’Eucaristia. È vero, si respirava la mancanza dell’incontro insostituibile per ogni cristiano: la celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. Ma la fede, oltre che celebrazione, incontro e comunità, è anche assenso personale, professione interiore ed esteriore dell’adesione profonda al Signore Gesù Cristo. La fede cammina con le sue sorelle, la speranza e la carità, divenendo accoglienza dei poveri, ascolto, perdono, collaborazione. Ci avviamo a spalancare le porte, riaccogliere i cristiani e celebrare insieme il giorno del Signore. Ma siamo consapevoli che aprire le chiese, studiare accorgimenti che aiutino a convivere con il virus, stabilire distanze e progettare sanificazioni è solo una dimensione di questo ritorno. La preoccupazione maggiore non sarà trovare la giusta sistemazione dei banchi ma chiederci se l’esperienza drammatica della pandemia ci ha fatto aprire il cuore e la mente a un nuovo modo di vivere e partecipare come comunità all’Eucaristia. Se ha fatto maturare in noi il senso di una vita cristiana vissuta nei suoi molteplici aspetti, quotidiani e ordinari, insieme a quelli festivi e solenni. Questa domanda ce la facciamo noi preti e se la fanno gli altri cristiani. Il nostro ritorno sarà un “ritorno al come prima” oppure saremo pronti a guardare in modo nuovo il nostro cammino di credenti? Non nego che i social ci hanno aiutato a mantenere il contatto, almeno visivo, con le celebrazioni; a condividere la preghiera con la comunità di tutti i giorni ma anche con quelle lontane da noi; a sentirci meno soli e abbandonati. Bisogna riconoscere la loro utilità come pure la loro invadenza. Al tempo stesso ci rendiamo conto che non si tratta solo di “assistere” alla celebrazione dell’Eucaristia, per quanto organizzata e visivamente perfetta, ma di partecipare, con tutto noi stessi. La dimensione digitale riduce quasi al minimo la partecipazione corporea (stimola specialmente la vista e l’udito) in relazione a quello che si celebra e si vive. La celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti, invece propone codici che mediano il significato e lo esaltano, utilizzando il nostro corpo e i nostri sensi: l’udito, la vista, il tatto, il gusto, l’odorato. Partecipare a una celebrazione mette in moto (o dovrebbe farlo) la risposta di tutta la persona, e non solo della dimensione cognitiva, cosa che la “realtà” digitale non può offrire se non in modo parziale. Ascoltare e rispondere alla proclamazione della Parola di Dio, cantare al Signore, alzarsi, inginocchiarsi, sedersi, elevare le mani, scambiarsi la pace, mettersi in fila per ricevere l’eucaristia, mangiare quel piccolo pezzo di pane… in tutto ciò la corporeità assume un valore pregnante. Non si tratta poi solo di “gestualità” ma anche di partecipazione emotiva; infatti nella celebrazione si vive la gioia, la tristezza, l’acclamazione, la concentrazione, e anche il dolore. Sappiamo però che esiste una costante tentazione di intellettualizzare i riti, di concentrarsi sulla spiegazione e comprensione cognitiva. Chiudersi nella “mia messa”, “assistere alla messa” “ascoltare la funzione”, opera una astrazione della presenza degli altri, che ci avvicina quasi, come ha detto Papa Francesco, a una posizione gnostica, come se la fede fosse solo conoscere e vedere. Non nego che anche per i presbiteri ci siano queste tentazioni: celebrare sbrigativamente la messa, farsi distrarre da tante cose, accentuare l’aspetto cognitivo a scapito del linguaggio dei segni e della celebrazione del Mistero, semplificare e banalizzare oppure spettacolarizzare ed esteriorizzare. Abbiamo tanto desiderato ritornare a celebrare insieme. Questa può essere l’occasione buona per esigere da noi stessi un passo in avanti. Per vivere quell’incontro domenicale come un dono, un vero momento di festa, una “comunione” con il Signore e gli altri e accogliere il mandato della missionarietà. Si è detto spesso, durante questo tempo di coronavirus, che siamo cresciuti nella solidarietà, nel riconoscere la presenza degli altri; persone che prima ci passavano a lato ma che non lasciavano tracce adesso, di colpo, sono divenuti i “vicini. C’è da sperare che questo nuovo sguardo metta radici e sia consolidato. Noi cristiani dobbiamo far emergere quello che abbiamo imparato: la nostalgia – non solo emotiva ma teologica – della comunità riunita attorno a Cristo. Abbiamo capito che anche quelle messe che giudicavamo noiose e lunghe avevano e hanno in sé la potenza di vita, di incontro, di comunione. Lasciamo affiorare il desiderio dell’incontro con il Signore e con gli altri. Sarà un modo per aprire anche il nostro cuore. Ma senza dimenticare la mente. Nel vangelo di Luca, quando si parla dei discepoli di Emmaus, si dice che il Signore aprì la loro mente a comprendere le Scritture. Facciamo nostra questa invocazione: Signore apri la nostra mente e scalda il nostro cuore! La ripartenza potrà aiutarci a riannodare una familiarità più profonda e perseverante con la Parola di Dio. Il coronavirus ci ha restituito in parte il silenzio, i tempi vuoti. Lasciamo che siano una occasione per riprendere il contatto con noi stessi e con Dio.